Come forse avrete capito, io adoro girare per quelle fiere e mercatini dove vengono messi in mostra e rispolverati tutti quegli alimenti che si sono un po' persi a causa dell'attuale stile di vita. Dopo aver passato l'estate scoprendo le molteplici ricette tradizionali della Puglia e della Toscana, è stato piuttosto triste tornare a casa e rendermi conto di quanto sia ristretto il ventaglio di prodotti che si trovano nei nostri mercati.
Di solito c'è un piccolo banco di legumi, che comunque vende poche cose: borlotti, fagioli bianchi e neri, lenticchie, ceci, piselli e, solo in alcuni posti, cicerchie. I banchi della verdura offrono molti prodotti di stagione, ma spesso mi accorgo di come ci siano i grandi assenti come alcune varietà di cavolo, certe erbe aromatiche fresche, alcune verdure, come la borragine, che si trova solo negli agnolotti già preparati, o quelle specie di melanzane bianche che ho visto solo qualche volta in fotografia. Se elencassi le verdure che si trovano al mercato sicuramente verrebbe fuori una lista lunga ma, se la affiancassi all'elenco dei prodotti che si sono 'persi per strada', salterebbero subito all'occhio le lacune della prima lista.
Per questo le fiere sono una buona occasione per vedere le tradizioni perse per strada, scambiare due chiacchiere con chi mantiene in vita quei prodotti e capire l'importanza dell'aprire le braccia a tutto quello che la Terra dona quando viene rispettata come una Madre e non strumentalizzata come una fabbrica.
Il problema è che spesso, a causa della confusione sconnessa delle persone, in queste fiere la parte positiva viene affiancata da quelle tradizioni che purtroppo hanno portato all'insostenibilità. Trovo buffo prendersela con un pastore che vive in montagna e che ogni tanto porta a valle qualche toma preparata da lui stesso. O con qualche fattore che viene da valli sperdute oltre le colline che arginano la città e che porta dei salami dal profumino invitante. Tuttavia bisogna riconoscere che quelle 'tradizioni' hanno dato origine ai grandi disastri che oggi vengono passati sotto silenzio e comunque tollerati con complice accettazione.
Per come la penso io, la morte inflitta non può portare a nulla di buono, non bisogna scambiare o accettare l'ignoranza delle proprie azioni come un'attenuante o peggio con l'innocenza. Con buona pace del fattore sperduto che ha il distacco mentale e la silenziosa crudeltà di sgozzare -seppur con tutta la delicatezza possibile- le bestie che fino al giorno prima chiamava per nome.
Sulla strada di questa contraddizione si passa dalle fiere dei piccoli paesi a quelle internazionali delle grandi città.
È da poco finito il Salone del Gusto a Torino, che si è portato dietro uno strascico di polemiche e proteste.
Perchè mai qualcuno dovrebbe avere qualcosa contro il Salone del Gusto, organizzato da Slow Food, il marchio paladino dei piccoli produttori schierati contro la globalizzazione?
Penso che a scatenare le proteste sia stata l'assurda decisione di affiancare il Salone (pieno di incuranza ed egoistico autocompiacimento e golosità) a Terra Madre, uno spazio dedicato alla riscoperta di quello che hanno da offrire -e con il quale sopravvivono- le popolazioni considerate del Terzo Mondo. La domanda che sorge spontanea è: può l'egoismo pavoneggiarsi accanto a chi fatica a sopravvivere, aggiungendo che proprio da quell'egoismo derivano i problemi di chi soffre la fame?
La risposta sembra ovvia ma, a quanto pare, nessuno ci arriva anzi, dato che questa cosa è stata voluta e organizzata, risulta chiaramente che nessuno si è posto il problema.
(copio e incollo parte di un articolo de La Stampa che parla del discorso di chiusura del Slaone e Terra Madre) “Il foglio, articolato in otto capitoli, e fondato su una ricerca dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo su temi che spaziano dal «diritto al cibo»* all’ecologia alla tutela della biodiversità alla salvaguardia dei patrimoni della tradizione, verrà presentato in tutto il mondo il 10 dicembre, in occasione del «Terra Madre day». Con l’applauso a questa carta, che rispecchia il «Terra Madre pensiero» a tutela quegli ultimi che, secondo Petrini, «sono gli unici a insegnarci davvero la vita»”
*Questo è l'insulto-beffa-contraddizione per eccellenza: leggete questo articolo per capire il perchè (se non lo sapete già).
Slow Food, con quest’ultima dichiarazione, si alza al livello del catechismo dogmatico dichiarando di essere l’unico a ‘insegnare davvero la vita’.
Complimenti per l’apertura mentale.
Slow Food dichiarava d’esser nato per contrastare la golobalizzazione e il pessimo mangiare dei cattivissimi Fast Food. Ma a ben guardare è diventato solo un bollino in più che permette di far strapagare verdura e frutta (alla facciazza del ‘buon cibo per tutti’); con il loro atteggiamento fanno passare come prodotti elitari cibi tradizionali che, a causa dei prezzi gonfiati e delle aree ristrette in cui possono essere coltivati (non per le necessità climatiche, quanto per i ‘presidi’ che declassano a 'imitazione' chi coltiva la stessa cosa da un'altra parte anche se sempre in Italia), non fanno altro che allontanare quei prodotti dalla gente. Inoltre alimenta tutto un circo di persone che mangiano a sbafo e scrivono articoli pomposi sul cibo come se avessero mangiato seduti alla corte di un antico sovrano (e vengono pagati per questo). Ovviamente sono totalmente sconnessi, se anche uno solo di loro fosse minimamente responsabile del proprio lavoro, dovrebbe almeno informarsi prima delle conseguenze che ha lo stile di vita che contribuisce a propagandare. Ma dopotutto come si può pretendere questo? Queste persone sono abituate a vedere recinti di mucche felici ognuna con un nome e tanti vitellini attorno, munte a mano come in una puntata di Linea Verde. Girano il mondo sotto una campana di vetro che li preserva dalla brutture della realtà e gli permette di far fluire la propria irresponsabile ignoranza dalla loro penna.
Oggi, grazie e queste persone, la tradizione è diventata un business (redditizio quanto se non di più del cattivissimo Fast Food), e sono stati alimentati pregiudizi riguardo al cibo che fanno apparire chi cerca un’alimentazione variata come una fashion victim del cibo, e persino il ‘mangiare integrale’ (intendo i semplici pasta e pane) viene visto come una cosa elitaria.
La cosa più triste di tutte è che comunque alcuni di loro rimangono gli unici a preservare quelle specie alimentari che, pur crescendo nel nostro Paese, sono scomparse dalle tavole. Ed è su quello che dovrebbero soffermarsi. Al mercato ho sentito una rivenditrice di legumi che, in base alla sua esperienza, affermava che presto persino le lenticchie sarebbero arrivate dall’estero. I legumi coltivati in Italia costano il doppio di quelli che vengono fuori dall’Unione Europea (date un’occhiata nei negozi del biologico per controllare). Nel mercato in cui vado c’è una solo piccolo banchetto con un anziano contadino che vende verdure dimenticate come il cavolo nero e alcuni tipi di radici che non vedo mai da altre parti. Il suo è il banco più piccolo del mercato e, di tutta la settimana, ha il posto solo al lunedì.
È questo il modo di preservare le nostre tradizioni?
È questo il modo di riavvicinare la gente al cibo italiano?
Dov’è Slow Food nei luoghi in cui la gente compra quotidianamente il proprio cibo?
Di sicuro non è lì. Ma potreste trovare il ‘bollino’ attaccato alla vetrina di un ristorante stracaro che vende a 15,00 € un piatto di spaghetti (in bianco) con una spolverata di pistacchi di Bronte perchè…. i pistacchi sono di Bronte!
Prego infine di notare che una ricerca fatta dall'Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo non ha il minimo valore di obbiettività rilevante, dato che si nutre dell'economia del cibo e che sforna quello stesso circo di persone che poi vanno in giro agitando e sniffando calici di vino e carezzandosi il pancione dopo una bella scorpacciata in un ristorante di lusso. Inoltre, data la retta, mi chiedo in che modo una scuola privata destinata all'élite possa permettersi di emettere questo genere di ricerche fasulle basate sul nulla (è evidente che non si sono nemmeno sforzati di leggere un rapporto della FAO o dell'ONU prima di scrivere questi otto capitoli, figuriamoci se sono andati a vedere davvero dove la gente muore di fame!).
Di solito c'è un piccolo banco di legumi, che comunque vende poche cose: borlotti, fagioli bianchi e neri, lenticchie, ceci, piselli e, solo in alcuni posti, cicerchie. I banchi della verdura offrono molti prodotti di stagione, ma spesso mi accorgo di come ci siano i grandi assenti come alcune varietà di cavolo, certe erbe aromatiche fresche, alcune verdure, come la borragine, che si trova solo negli agnolotti già preparati, o quelle specie di melanzane bianche che ho visto solo qualche volta in fotografia. Se elencassi le verdure che si trovano al mercato sicuramente verrebbe fuori una lista lunga ma, se la affiancassi all'elenco dei prodotti che si sono 'persi per strada', salterebbero subito all'occhio le lacune della prima lista.
Per questo le fiere sono una buona occasione per vedere le tradizioni perse per strada, scambiare due chiacchiere con chi mantiene in vita quei prodotti e capire l'importanza dell'aprire le braccia a tutto quello che la Terra dona quando viene rispettata come una Madre e non strumentalizzata come una fabbrica.
Il problema è che spesso, a causa della confusione sconnessa delle persone, in queste fiere la parte positiva viene affiancata da quelle tradizioni che purtroppo hanno portato all'insostenibilità. Trovo buffo prendersela con un pastore che vive in montagna e che ogni tanto porta a valle qualche toma preparata da lui stesso. O con qualche fattore che viene da valli sperdute oltre le colline che arginano la città e che porta dei salami dal profumino invitante. Tuttavia bisogna riconoscere che quelle 'tradizioni' hanno dato origine ai grandi disastri che oggi vengono passati sotto silenzio e comunque tollerati con complice accettazione.
Per come la penso io, la morte inflitta non può portare a nulla di buono, non bisogna scambiare o accettare l'ignoranza delle proprie azioni come un'attenuante o peggio con l'innocenza. Con buona pace del fattore sperduto che ha il distacco mentale e la silenziosa crudeltà di sgozzare -seppur con tutta la delicatezza possibile- le bestie che fino al giorno prima chiamava per nome.
Sulla strada di questa contraddizione si passa dalle fiere dei piccoli paesi a quelle internazionali delle grandi città.
È da poco finito il Salone del Gusto a Torino, che si è portato dietro uno strascico di polemiche e proteste.
Perchè mai qualcuno dovrebbe avere qualcosa contro il Salone del Gusto, organizzato da Slow Food, il marchio paladino dei piccoli produttori schierati contro la globalizzazione?
Penso che a scatenare le proteste sia stata l'assurda decisione di affiancare il Salone (pieno di incuranza ed egoistico autocompiacimento e golosità) a Terra Madre, uno spazio dedicato alla riscoperta di quello che hanno da offrire -e con il quale sopravvivono- le popolazioni considerate del Terzo Mondo. La domanda che sorge spontanea è: può l'egoismo pavoneggiarsi accanto a chi fatica a sopravvivere, aggiungendo che proprio da quell'egoismo derivano i problemi di chi soffre la fame?
La risposta sembra ovvia ma, a quanto pare, nessuno ci arriva anzi, dato che questa cosa è stata voluta e organizzata, risulta chiaramente che nessuno si è posto il problema.
(copio e incollo parte di un articolo de La Stampa che parla del discorso di chiusura del Slaone e Terra Madre) “Il foglio, articolato in otto capitoli, e fondato su una ricerca dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo su temi che spaziano dal «diritto al cibo»* all’ecologia alla tutela della biodiversità alla salvaguardia dei patrimoni della tradizione, verrà presentato in tutto il mondo il 10 dicembre, in occasione del «Terra Madre day». Con l’applauso a questa carta, che rispecchia il «Terra Madre pensiero» a tutela quegli ultimi che, secondo Petrini, «sono gli unici a insegnarci davvero la vita»”
*Questo è l'insulto-beffa-contraddizione per eccellenza: leggete questo articolo per capire il perchè (se non lo sapete già).
Slow Food, con quest’ultima dichiarazione, si alza al livello del catechismo dogmatico dichiarando di essere l’unico a ‘insegnare davvero la vita’.
Complimenti per l’apertura mentale.
Slow Food dichiarava d’esser nato per contrastare la golobalizzazione e il pessimo mangiare dei cattivissimi Fast Food. Ma a ben guardare è diventato solo un bollino in più che permette di far strapagare verdura e frutta (alla facciazza del ‘buon cibo per tutti’); con il loro atteggiamento fanno passare come prodotti elitari cibi tradizionali che, a causa dei prezzi gonfiati e delle aree ristrette in cui possono essere coltivati (non per le necessità climatiche, quanto per i ‘presidi’ che declassano a 'imitazione' chi coltiva la stessa cosa da un'altra parte anche se sempre in Italia), non fanno altro che allontanare quei prodotti dalla gente. Inoltre alimenta tutto un circo di persone che mangiano a sbafo e scrivono articoli pomposi sul cibo come se avessero mangiato seduti alla corte di un antico sovrano (e vengono pagati per questo). Ovviamente sono totalmente sconnessi, se anche uno solo di loro fosse minimamente responsabile del proprio lavoro, dovrebbe almeno informarsi prima delle conseguenze che ha lo stile di vita che contribuisce a propagandare. Ma dopotutto come si può pretendere questo? Queste persone sono abituate a vedere recinti di mucche felici ognuna con un nome e tanti vitellini attorno, munte a mano come in una puntata di Linea Verde. Girano il mondo sotto una campana di vetro che li preserva dalla brutture della realtà e gli permette di far fluire la propria irresponsabile ignoranza dalla loro penna.
Oggi, grazie e queste persone, la tradizione è diventata un business (redditizio quanto se non di più del cattivissimo Fast Food), e sono stati alimentati pregiudizi riguardo al cibo che fanno apparire chi cerca un’alimentazione variata come una fashion victim del cibo, e persino il ‘mangiare integrale’ (intendo i semplici pasta e pane) viene visto come una cosa elitaria.
La cosa più triste di tutte è che comunque alcuni di loro rimangono gli unici a preservare quelle specie alimentari che, pur crescendo nel nostro Paese, sono scomparse dalle tavole. Ed è su quello che dovrebbero soffermarsi. Al mercato ho sentito una rivenditrice di legumi che, in base alla sua esperienza, affermava che presto persino le lenticchie sarebbero arrivate dall’estero. I legumi coltivati in Italia costano il doppio di quelli che vengono fuori dall’Unione Europea (date un’occhiata nei negozi del biologico per controllare). Nel mercato in cui vado c’è una solo piccolo banchetto con un anziano contadino che vende verdure dimenticate come il cavolo nero e alcuni tipi di radici che non vedo mai da altre parti. Il suo è il banco più piccolo del mercato e, di tutta la settimana, ha il posto solo al lunedì.
È questo il modo di preservare le nostre tradizioni?
È questo il modo di riavvicinare la gente al cibo italiano?
Dov’è Slow Food nei luoghi in cui la gente compra quotidianamente il proprio cibo?
Di sicuro non è lì. Ma potreste trovare il ‘bollino’ attaccato alla vetrina di un ristorante stracaro che vende a 15,00 € un piatto di spaghetti (in bianco) con una spolverata di pistacchi di Bronte perchè…. i pistacchi sono di Bronte!
Prego infine di notare che una ricerca fatta dall'Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo non ha il minimo valore di obbiettività rilevante, dato che si nutre dell'economia del cibo e che sforna quello stesso circo di persone che poi vanno in giro agitando e sniffando calici di vino e carezzandosi il pancione dopo una bella scorpacciata in un ristorante di lusso. Inoltre, data la retta, mi chiedo in che modo una scuola privata destinata all'élite possa permettersi di emettere questo genere di ricerche fasulle basate sul nulla (è evidente che non si sono nemmeno sforzati di leggere un rapporto della FAO o dell'ONU prima di scrivere questi otto capitoli, figuriamoci se sono andati a vedere davvero dove la gente muore di fame!).
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